È scomparso Carlo Coppola, grande figura della vitivinicoltura pugliese

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Carlo Coppola

E’ mancato qualche giorno fa, a Gallipoli,  Carlo Coppola, una grande figura della viticoltura salentina e italiana. Aveva 85 anni. Grande conoscenza del settore e del territorio. Gentilezza e verve polemica – sempre educata e gentile – non sterilmente critica ma costruttiva. Forse è una delle accezioni della saggezza, almeno di quella enoica. Questa saggezza è stata personificata da Carlo Coppola, memoria storica del Salento vitivinicolo, scomparso qualche giorno fa.

Aveva 85 anni. Diplomato nel 1948 in agronomia ed enotecnica in quella che allora era la massima istituzione scientifica in questo campo, ossia la Scuola Enologica Umberto I di Alba, si è sempre dedicato alla vitivinicoltura nell’azienda di famiglia, ma ha curato varie pubblicazioni, ha steso il disciplinare della Doc Alezio, e assolto a molteplici incarichi istituzionali, tra cui quello di componente della Commissione di assaggio di secondo grado presso il Ministero dell’Agricoltura.

Per comprendere meglio la sua levatura umana, ecco una delle ultime interviste concesse negli ultimi anni.

Rosato, Territorio, Salento

Lei sostiene che il Concorso dei Vini Rosati d’Italia dovrebbe avere altre caratteristiche per valorizzare al meglio la produzione salentina.

Noi salentini abbiamo sempre creduto nel Rosato, ho l’impressione che questo concorso ci tolga questo orgoglio e tolga la priorità del Negroamaro quale uva migliore per la produzione di questa tipologia di vinificazione. Mi auguro che gli organizzatori possano recepire questa riflessione e abbiano l’accortezza di mutare l’impostazione del concorso. Qualche degustatore ha sostenuto che i Rosato da uve Montepulciano, o da Aglianico o da Sangiovese sono migliori, e magari solo perché hanno dei profumi più ruffiani. Io dico che i Rosati da Negroamaro posseggono un colore proprio, il celebre riflesso rosa corallo, una lunghezza, un corpo, una complessità individuabile insuperabile. I Rosati da altri vitigni non hanno queste prerogative. E soprattutto dobbiamo tenere presente l’interrelazione fondamentale esistente tra Negroamaro e il territorio salentino. Il nostro compito non è mettere a confronto i Rosati d’Italia, ma convincere, spiegando le valide ragioni, perché il nostro Rosato è inimitabile. Se qualche degustatore, convinto che il Nebbiolo sia la miglior uva per gli spumanti, andasse dai vigneron della Champagne a proporlo chiedendo di spiantare i vigneti di Chardonnay e Pinot nero, con cui hanno sempre prodotto il loro grande vino, verrebbe immediatamente preso per provocatore.

Ma perché controproducente?

Credo che l’impegno di un amministratore regionale sia valorizzare la produzione locale, non istituire un concorso nazionale con vini provenienti da tutt’Italia. È come se un assessore piemontese istituisse un concorso nazionale dei vini da uve Nebbiolo. I vignaioli delle zone vocate del Barolo e del Barbaresco protesterebbero senz’altro. Proviamo a pensare anche a quale sarebbe la reazione dei produttori del Prosecco in Veneto se il loro assessore proponesse un concorso italiano dei vini spumanti invece di spingere la produzione regionale.

Problemi analoghi nascono anche in altri settori dell’agricoltura?

Purtroppo sì, si passa dalla viticoltura al mais, dal frumento alle mele, senza rivendicare e valorizzare le vocazionalità colturali. A Bordeaux o in Borgogna nessuno si sognerebbe di imporre la coltura del mais, ci sarebbe delle immediate rivolte. Certo, si devono lasciare aperte le porte della sperimentazione, ma con giudizio e ponderazione. Anch’io ho deciso di piantare un vigneto di Vermentino, un’uva sconosciuta nel nostro territorio, ma l’ho fatto dopo studi del terreno, del clima, dell’adattabilità di questa cultivar. Credo sia giunto il momento per definire quali sono le vocazioni colturali, culturali ed economiche del territorio ed essere conseguenti senza cedere a imposizioni o a mode effimere. E forse l’istituzione della Regione Salento potrebbe essere una strada per arrivare a questo risultato, come già nel secondo dopoguerra mio padre Niccolò sosteneva dalle pagine del mensile La Torre.

In provincia di Lecce si è passati da 63mila ettari coltivati a vite agli attuali 12mila. Una tragedia! Alcuni hanno tolto i vigneti per piantare ortaggi. Sono convinto che l’agricoltura non debba essere monocolturale, ma se un territorio è vocato alla produzione di uva da vino bisogna fare il possibile per continuare questa tradizione. Le responsabilità di questa situazione vanno ripartite tra direttive comunitarie, scelte nazionali e regionali, ma anche tra gli imprenditori e vitivinicoltori locali.

Lo stesso sbaglio è stato fatto con l’allevamento. Da 130mila pecore si è passati a 30mila, sovvenzionando invece delle stalle per l’allevamento bovino che sono fallite in pochi anni e che ora sono delle cattedrali nel deserto. Eppure non sarebbe stato difficile notare che il nostro territorio è naturalmente adatto agli ovini e storicamente questo è l’allevamento tradizionale.

Tornando al vino, non teme l’omologazione dei gusti?

Per fare in modo che i vini prodotti da uve differenti e in differenti territori non si assomiglino, bisognerebbe mettere in discussione l’uso dei lieviti selezionati. Ho l’orgoglio di aver assistito, negli anni scolastici, ai seminari di Tommaso Castelli, scienziato di fama che aveva individuato il bacterio cerevisae, su cui si basa questa tecnica. L’uva non ha bisogno di lieviti aggiunti, li contiene naturalmente. Ripeto, non sono contro le novità, la tecnica e la scienza, anzi! Dipende se servono per migliorare o meno un prodotto. Ma se il risultato dell’uso smodato dei lieviti selezionati è che i vini si assomigliano, allora è necessario mettersi in discussione. Purtroppo prima si vinificavano le uve, ora invece si fabbrica il vino, come si fabbrica qualsiasi bevanda seriale. Oramai certi vini mi ricordano le nefaste damigiane di Albana aromatizzate alla banana e alla fragola, che negli anni ’60 invasero l’Italia!

Ritorniamo alla questione dell’omologazione dei vini, ma rimaniamo negli anni ’60: mio padre Niccolò sosteneva la nascita di una Doc Salento con la specificazione delle zone vocate, chiamate “Sottozone” negli attuali disciplinari, nome che però non comunica superiorità, ma inferiorità. Basterebbe utilizzare la parola cru, ormai divenuta internazionale, come proponeva Veronelli. Speriamo sia la strada intrapresa con la nuova Doc Terra d’Otranto.

Ci racconta qualcosa della sua amicizia con Luigi Veronelli?

Veronelli, maestro della critica enogastronomica, venne a trovarci più volte negli anni Settanta. Me lo ricordo ancora, pantaloni corti e camicia a fiori, grande cultura e conoscenza dei vini e della vitivinicoltura. Organizzavamo concorsi di cucina e degustazioni, che lui conduceva, con grande interesse dei turisti. Si innamorò dei nostri vini, di Gallipoli e del suo mare. Invitato da lui, andai prima a Milano e poi nella sua casa di Bergamo Alta, partecipai a riunioni con i migliori vignaioli di ogni regione italiana (ricordo tra gli altri il friulano Paolo Rapuzzi, il valdostano Enzo Voyat, il piemontese Giacomo Bologna, Armando Botteon, esperto in legislazione vitivinicola), in particolare per studiare delle proposte per superare le carenze delle normative dell’allora Comunità Economica Europea in merito ai vini di qualità che non rientravano ancora nelle Doc. Insisteva con ragione sulla teoria dei cru, cioè della valorizzazione dei territori altamente vocati alla coltivazione di un determinato vitigno, teoria e pratica ancora valide. Ho seguito le sue indicazioni, che erano anche le indicazioni di mio padre Niccolò: non abbandonare i vigneti, vinificare le proprie uve, possibilmente secondo il vigneto di provenienza.

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